I giorni dello scudetto.gli altri eroiComprimari di lussoAccanto ai Tancredi, ai Vierchowod, gli Ancelotti, al Conti "mondiale", una schiera di atleti preziosi e determinati: da Prohaska a Valigi, da Nappi ad Aldo MalderaNils Liedholm, alla vigilia di quel campionato vittorioso, follemente si innamorò
di uno dei quei paradossi che si metteva addosso, ogni tanto, sfoggiandoli come
vestiti nuovi. Andava in giro dicendo: «La Roma è Falcao e Valigi,
più altri nove». Le prime volte, non ci azzardammo a scriverlo:
poi Nils insisteva, e allora divenne un classico. Ma chi era, Claudio Valigi?
Un ragazzo di agiata famiglia umbra, e di buona educazione. Di buon talento
calcistico, anche: e di disinvolti comportamenti. Aveva esordito nella Ternana
quando «puzzava ancora di latte», cioè a quattordici anni
appena compiuti. E dalla Ternana, in quella stagione '82/83, passò alla
Roma. Liedholm rimase quasi folgorato, ma per fortuna era solo un abbaglio.
Nils intravvide in Valigi un fuoriclasse, pensò davvero di rivoluzionare
l'assetto della squadra per inserirlo stabilmente. Per il momento, Valigi non
aveva ostacoli: mancava Ancelotti, mancava lo stesso Falcao, mancava Conti.
La squadra che esordì vincendo a Cagliari, era solo una parvenza di Roma.
I risultati subito ottenuti però, rivelarono qualcosa di nuovo, diedero
una emozionante sensazione di compiutezza. L'ingaggio miracoloso non era stato
quello del ragazzo che Liedholm aveva elevato alla dignità di Falcao.
Claudio Valigi il suo dovere riuscì a farlo, giocando tredici partite;
poi rientrò nei ranghi e lasciò la Roma a fine stagione. Il disegno
tattico della Roma si completò al termine di una campagna di rafforzamento
perfetta: venne Pietro Vierchowod, venne l'austriaco Herbert Prohaska, venne
Aldo Maldera, navigato difensore di fascia; e venne infine un altro difensore,
il perugino Nappi, un tipo molto abituato a ragionare. Falcao e Vierchowod su tuttiFalcao e Vierchowod furono i migliori. Entrambi raggiunsero presto un rendimento altissimo poi mantenuto costante; Vierchowod disputò tutte le trenta partite: lui eTancredi e nessun altro. Falcao era ormai signore non solo dell'Olimpico ma di tutti i campi italiani: conosceva la storia, la bellezza, i misteri, gli inghippi del nostro calcio. Conosceva i suoi protagonisti, e di ognuno sapeva sfruttare i difetti. Conosceva il pubblico, i tifosi, e sapeva andare incontro alla gente senza rumanerie. Conosceva la città, e sapeva amarla con discrezione. Non è mai apparso arrogante. Poi vennero, in ordine di merito, Tancredi, Conti e Ancelotti. TI portiere si era fatto una solida fama di rigorista, ma non campò di rendita con quella specializzazione; fanatico del mestiere, Tancredi ne rispettava in modo bigotto le regole, e crediamo che sia il complimento massimo. Lui non giocava, celebrava un rito. E se sbagliava una partita, cosa che accadeva raramente, chiedeva scusa pure ai legni della sua porta. TI recupero di Ancelotti fu sofferto: entrò alla sesta giornata, contro il Cesena, ma solo nei minuti finali. L'Olimpico si commosse. La Roma aveva già perso una volta: alla terza giornata sul campo della Sampdoria: non sarebbe più successo, a parte le sfide con la Juventus, che rappresentarono una specie di castigo divino: il prezzo da pagare per arrivare allo scudetto, la mortificazione da patire, il sangue da versare. Quattro volte la Roma incontrò la Juve in quella stagione, e quattro volte fu sconfitta.Bruno Conti arrivò al campionato con una sbornia di gloria e di fatica ancora da smaltire. Era stato il miglior giocatore dei Mondiali, aveva inventato quasi tutti i gol italiani, aveva meritato suggestivi paragoni con i fuoriclasse del ruolo. E aveva sputato pure l'anima. In quel momento di incompleto recupero, bastava uno starnuto per scuoterlo, e arrivarono malanni di cui non aveva mai sofferto. Cominciòin ritardo il campionato, e lo cominciò in sordina. Poi si riprese, ma a questo punto nacquero gli equivoci. Tutti aspettavano di rivedere il Bruno Conti dei campionati mondiali, e non era più possibile. Quella era stata un'estate breve e bruciante, questo sarebbe stato un inverno lungo e pesante. Quello era stato un guizzo, un volo: questa sarebbe stata una marcia pesante. Fosse riuscito ad esprimersi ancora a quei livelli, Bruno avrebbe uguagliato Garrincha e gli altri della sua specie, campioni e demoni quali erano. Così nacque la sensazione di un Conti sotto tono: ma non era vero. A Conti mancò una ferrea regolarità semplicemente perchè non l'aveva mai posseduta, in un torneo lungo. Ma il suo genio calcistico non apparve appannato, tutt'altro. Tratto da La mia Roma del Corriere dello Sport
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